“Cesare deve morire” proiettato al cinema Aquila di Roma lo scorso 12 ottobre: i protagonisti del grande schermo hanno incontrato operatori e organizzazioni sociali. Il racconto della serata a cura di Enzo Berardi: un film da vedere, carico di emozioni, già pronto per partire alla volta degli Oscar.
Quando l’attività sociale nelle carceri diventa lavoro e cultura
Venerdì 12 ottobre al cinema Aquila di Roma, il Garante dei Diritti dei detenuti, la Legacoop Lazio, la Coop. 29 Giugno e Visioni Sociali, hanno organizzato un pomeriggio di riflessione intorno al tema del lavoro sociale nelle carceri. Lo spunto è stato la proiezione, riservata ad un pubblico di cooperatori, del film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”, girato nel braccio di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. La sua realizzazione è stata possibile anche grazie al lavoro della Coop. 29 Giugno che nel carcere di Rebibbia è nata, che nel e per il carcere da oltre venticinque anni opera, occupandosi dell’inserimento lavorativo e mantenendo vivo al suo interno un laboratorio teatrale. Il film, che racconta la messa in scena del “Giulio Cesare” di Shakespeare con grande spessore artistico e umano, è stato salutato da un lungo e convinto applauso della sala gremita. Alla fine della proiezione ci sono stati alcuni interventi che sono stati occasione di riflessione sulla condizione carceraria e sul lavoro cooperativo. Ha aperto il giornalista Emilio Radice che ha ricordato “Antigone”, il primo spettacolo messo un scena nel 1985 dalla compagnia di detenuti. Un’esperienza che ha palesato come il teatro sia uno strumento insostituibile per aprire il carcere all’esterno e parlare delle questioni carcerarie. Poi è intervenuto Cosimo Rega, che nel film ha il ruolo di Cassio, il quale ha ripercorso il lungo cammino che ha portato la compagnia al sodalizio con i fratelli Taviani, ricordando come la voglia di apparire e raccogliere applausi degli inizi, nel tempo ha maturato la necessità che affianco all’arte ci fosse anche la cultura e lo studio. Ha sottolineato che l’arte oltre a stimolare il pensiero e ad arricchire la creatività, fa scoprire la sofferenza in un luogo che senza cultura, senza studio e senza lavoro è un luogo che non ha senso. Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio, dopo aver ricordato l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e i cinque David di Donatello assegnati al film, ha rilevato che grazie al percorso intrapreso con il teatro, nella sezione di massima sicurezza oggi ci sono venticinque detenuti iscritti all’università. Ha spiegato che dei premi i detenuti non hanno preso un euro ma, di comune accordo, è stato deciso di usare i soldi per migliorare le condizioni di vita della sezione. Ha concluso affermando che se da una parte è vero che i cittadini hanno diritto alla sicurezza, è anche vero che non è questo sistema carcerario, con i penitenziari sovraffollati e una qualità della vita bassissima, a garantirla, ma è necessario attivare una cultura dell’uscita dalla criminalità facendo sì non sia quella carceraria l’unica pena possibile. È stata quindi la volta di Pino Buongiorno Presidente di Legacoopsociali Lazio, che ha notato come questo film sia un’espressione importante della cultura che il lavoro sociale può produrre. Ha ribadito che è necessario tenere al centro delle riflessioni i temi legati ai diritti, per il riconoscimento dei quali la cooperazione lavora da sempre tra mille difficoltà, non ultima quella del finanziamento di progetti che possano creare le condizioni per un colpo d’ala della cultura dei diritti. Ha ricordato l’intervento del Presidente della Repubblica il quale, di recente, ha posto al centro del dibattito politico l’inadeguatezza delle condizioni carcerarie, un tema di civiltà che il film ripropone attraverso la metafora poetica. Stefano Venditti, Presidente di Legacoop Lazio, ha sottolineato che si tratta di un film che fa pensare e ripensare, che si propone come immagine del nostro Paese che ha bisogno di ricostruirsi, di uscire dalle gabbie di schemi obsoleti. In questo senso il film può essere uno stimolo al grande lavoro che la cooperazione deve continuare a fare nel Paese. Ha chiuso chiedendosi come mai non venga riconosciuta in tutto il suo valore l’esperienza della cooperazione, che non è di lotta all’esclusione sociale ma di lavoro quotidiano e permanente all’inclusione e alla ricostruzione di percorsi di vita.
Chiudo invitando tutti a vedere “Cesare deve morire” non perché è un film che in qualche modo riguarda da vicino l’attività del terzo settore, ma perché è un film intelligente, commovente e carico di spunti di riflessione.
Enzo Berardi
da: nelpaese.it.