La cooperativa Viticoltori dei Colli Cimini di Vignanello è tra i vincitori della prima edizione del “Premio Roma” per i migliori vini, promosso dalla Camera di Commercio. Tra i centocinquanta prodotti in corsa, il greco di Vignanello DOC si è classificato secondo nella categoria vitigni autoctoni del Lazio, mentre il Vignanello DOC Superiore secco è terzo tra i bianchi tranquilli DOP, DOCG e DOC.
Le associate a Legacoop Lazio sono state protagoniste di questo Premio con due cooperative. “Oltre alla nostra, ha ricevuto dei riconoscimenti anche la Cincinnato per il Cori DOC. Questo concorso ha di fatto ben dimostrato la vitalità, la forza, le doti e la qualità dei vini prodotti in ambito cooperativo” ha commentato il presidente della Viticoltori dei Colli Cimini, Alessandro Serafini, che dichiara la sua realtà pronta e favorevole alla co-programmazione commerciale tra cooperative del settore per rafforzare la capacità di stare sul mercato delle pmi.
“Siamo felici di aver ricevuto nella nostra regione un premio. Roma è un brand molto spendibile ed è un bene che la Camera di Commercio abbia voluto valorizzare i migliori vini del Lazio che hanno caratteristiche di pregio per la loro storicità o per grado di innovazione – ha detto -. Utile è l’aver presentato nella Capitale anche un volume volto a fare conoscere alla rete della ristorazione il valore e le potenzialità dei vini regionali. E’ un tentativo apprezzato di dare attenzione ai vini locali e di formare una sensibilità tra i consumatori affinché non continuino a richiedere le solite etichette”. E ha aggiunto: “Le potenzialità dei vini del Lazio sono state già ampiamente dimostrate dal livello qualitativo e di eccellenza raggiunto dai produttori. Quello che manca, e che costituisce più che una minaccia una certezza alla mancata loro affermazione, è l’assoluta assenza di immagine di una regione che storicamente ha esportato la coltura della vite nel mondo. Non si riesce, da parte delle Istituzioni e delle imprese, a creare quelle condizioni che hanno più recentemente determinato considerazione e popolarità alla vitivinicoltura di regioni come Sicilia, Campania, Puglia”.
Ottocentomila euro di valore della produzione, trecento soci conferitori ripartiti in duecento di uva e cento di olive, la cooperativa distribuisce i suoi prodotti attraverso Coop e alcune altre catene della gdo nel Lazio, in Umbria e in Campania, ma vorrebbe crescere soprattutto nella capacità di commercializzare il Vignanello nella sua regione di origine: una operazione che richiede una attività di marketing territoriale e soprattutto cooperazione. “Ci piacerebbe proporre a una cooperativa vitivinicola di I grado di consentirci di ampliare la nostra produzione sul mercato offrendo lei stessa una piccola DOC autoctona sul mercato, dal momento che all’estero vengono richieste da diverso tempo” ha detto.
Perché quanto si poteva fare per recuperare i vitigni autoctoni storici e tradizionali del Lazio è stato fatto. Ed ha richiesto un grande sforzo. Istituti di ricerca e imprese hanno dato un grande contributo alla rinascita di prodotti come il Vignanello. Eppure, nemo propheta in patria, molte di queste etichette non sono conosciute nel Lazio prima ancora che in Italia, complici ristorazione e parte della gdo che non sostengono sufficientemente una cultura variegata dei vini autoctoni tra i consumatori, inconsapevoli del fatto che dietro una etichetta ci sia molto di più di un nome: un territorio, sudore della fronte, ma anche una storia che dal vino si fa sangue, per raccontare il riscatto di intere generazioni che hanno saputo trovare tra le macerie della guerra una via per consegnare alle generazioni future una possibilità di sviluppo e di crescita.
Il tempo, però, è tiranno. E cancella da buona parte della memoria collettiva i segreti di chi è riuscito ad andare avanti, nonostante tutto. Non si cancellano le colpe. Perché in territori come il viterbese le politiche del passato che hanno penalizzato la viticoltura rischiano di rivelarsi, a distanza di un ventennio, ancora oggi fatali. “A cavallo tra gli anni 80 e 90 sul territorio producevamo fino a ventimila tonnellate di uve. Ben presto, però, si è avuto un arretramento perché nel frattempo sul territorio si è diffusa la monocoltura del nocciolo- chiarisce Serafini-. Infatti, per contrastare l’eccedenza produttiva a livello globale divenuta ben presto strutturale, che ha reso necessario il ricorso alla distillazione per risolvere l’emergenza, un ventennio fa la Comunità economica europea ha aperto una grande campagna di espianto dei vigneti con indennizzi ragguardevoli. Così, in tanti tra quelli che coltivavano la vite solo come secondo mestiere hanno preferito destinare i terreni alla coltura del nocciolo. Quantitativamente, dal 2004 al 2011, il declino per la nostra cooperativa era già quantificabile in un calo vertiginoso della produzione, pari a un decimo dei fasti della vendemmia del 2004 che raggiungeva le diecimila tonnellate”.
Oggi, la monocoltura del nocciolo sta moltiplicando i suoi danni. “Ha portato con sé anche l’inquinamento perché ogni monocoltura che si insedia su un territorio crea una serie di problemi dovuti alla diffusione di insetti e parassiti. Qui da noi Ferrero ha acquistato strutture, creato una serie di accordi sul territorio, e così la coltivazione delle nocciole è diventata un competitor molto forte” chiarisce il presidente. E’ la vittoria del brand Nutella che fagocita tutto il resto, andando ad aggiungersi agli effetti del cambiamento climatico. “Non si tratta più di eccezioni, i percorsi stagionali anomali sono ormai la regola. Possiamo solo cercare di intervenire sulla capacità di adattamento delle piante e sui metodi di coltivazione – spiega il presidente-. Noi produciamo anche l’olio e quest’anno si è registrato un calo delle rese nella nostra provincia ma anche in quella di Rieti, dovuto alla mosca olearia. Per la nostra azienda ha rappresentato una débacle: abbiamo avuto un calo del 90%. In più, la vendemmia ha risentito fortemente della peronospera”.
Ogni momento difficile sembra il più difficile. Eppure la cooperativa, che ha superato il mezzo secolo di vita, ha trovato risorse e strategie per superare difficoltà ben più grandi. “La costituzione della cooperativa risale al 63, lo stabilimento è stato ultimato nel 68 e nel 72 ci sonno stati i primi conferimenti e l’inizio delle attività” ricorda Serafini. Nel 2004, in coincidenza con il boom produttivo, c’è stata una fusione tra due cooperative del territorio. Cosa c’è stato prima della nascita di una cooperativa che oggi fattura 800mila euro, nonostante le difficoltà? Prima che la cooperativa nascesse, ognuno produceva il Vignanello nella propria vetusta cantina per autoconsumo o lo commercializzava presso le famiglie e le trattorie di Roma” racconta il presidente. Si provava a sopravvivere. E chi c’è stato prima? Oltre mezzo secolo di cooperativa che è nata nel dopoguerra, proprio quando si è stati costretti a ricominciare da zero, non è semplice da ricordare. Bisogna risalire ai ricordi tra generazioni, riagganciarsi alla memoria storica. “Qui la guerra c’è stata e si è sentita forte… Nella mia azienda agricola, subito dopo l’armistizio, s’era insediato un Comando tappa tedesco” spiega Serafini.
Come sia tornata la voglia di ricominciare dalla terra e dalla vigna ai figli di coloro che magari erano stati in guerra o che la avevano vissuta nel paese noto per un orrendo eccidio nazista, non è semplice scoprirlo. La memoria storica dell’eccidio del Corpus Domini di Vignanello è stata a lungo celata dal dolore di quei corpi uccisi per impiccagione le cui storie sono state a lungo celate dal dolore, insieme a vicende come quelle di Lando Bracci, il ragazzo del violoncello che, strappato dalla sua casa dai tedeschi e deportato, attraversò l’Italia centro settentrionale e la Germania passando da un campo di concentramento all’altro per poi tornare vivo a Vignanello. Eppure la storia della cooperativa Viticoltori dei Colli Cimini non può non essere in qualche modo intrecciata alla volontà di ripartire anche dopo la ferocia della guerra. Difficile ricordarlo oggi che il contesto sembra essere fortemente mutato e ai campi con i vigneti si sono sostituiti i noccioleti. “I veri imprenditori agricoli erano quelli del dopoguerra. Oggi sono una genia estinta qui. Chi fa agricoltura lo fa come secondo mestiere e il passaggio intergenerazionale di questa cooperativa non riesco a immaginarlo adesso se non come il passaggio di un testimone di qualcosa che possa avere un vantaggio economico legato alla filosofia della massima resa con minima spesa” ha commentato Serafini.
Forse, ora che questa cooperativa sembra essere arrivata a scontrarsi con la difficoltà del tramandare l’impresa ad altri che verranno, riscoprire il coraggio di chi ha trovato nella terra una via per garantire crescita e sviluppo per intere comunità potrebbe significare tanto. E ridare un nuovo significato a un nome su un’etichetta che ha alle spalle una storia che merita di essere indagata perché tra le radici a riposo nella terra non si perdano anche quelle di una intera comunità.