LA REALTA’ VIRTUALE IN TEATRO E IL TRANSFERT DALL’ARGOT AL CINEMA

Quarant’anni dopo l’esperienza nelle “cantine”, il teatro Argot, gestito dall’omonima cooperativa, lascia che la realtà virtuale infranga tutte le pareti insieme ad Elio Germano. Continua però a credere nello spazio sacro del teatro e a portare in sala il pubblico, mentre il cinema non smette di subire il fascino di questo teatro cooperativo e di rubarne le opere, come è accaduto con il film “Barbara”, con Marco Giallini e Valerio Mastandrea, o con “Cuore cattivo” di Umberto Marino, portato sul grande schermo da Kim Rossi Stuart. A spiegarci il mistero di questo “transfert” è Francesco Frangipane della cooperativa Argot.

Iniziamo da questa esperienza cooperativa: quando e come nasce?

Nasce nel 1988 ed è il frutto di un’esperienza che quest’anno compie 40 anni: l’Associazione Teatro Argot Studio. Stiamo infatti per celebrare questo anniversario con il patrocinio della Regione e del Comune, perché nel 1984 nasce il Teatro Argot Studio a Piazza San Cosimato, a Trastevere. Si tratta di uno spazio nato dopo le famose “cantine” degli anni ’70. Erano dei teatri non convenzionali, successivamente chiamati “teatri off”, all’interno dei quali gli artisti avevano la possibilità di sperimentare nuove operazioni culturali. L’esperienza di Argot è nata sulla scia di questo movimento e si è distinta sin da subito a Roma come spazio capace di andare oltre la sperimentazione artistica, focalizzandosi sulla promozione della drammaturgia contemporanea italiana. Così, nel 1984, ha preso vita il Teatro Argot Studio, fondato da Maurizio Panici. Quattro anni dopo, nel 1988 è stata poi creata la cooperativa Argot. Sin dagli albori, tutti gli attori italiani sono passati da questo spazio per muovere i primi passi. E’ stata una grande esperienza per Roma, e così dall’Argot è nata l’esigenza di una produzione teatrale.

E’ per questo che è nata la cooperativa?

Esatto. Proprio da qui l’idea di fondare una cooperativa che permettesse ai progetti professionali di nascere e circuitare a livello nazionale. E’ nata così Argot Coop, divenuta poi Produzione Argot. Dal 1989 la cooperativa è stata riconosciuta e finanziata dal ministero della Cultura (MIBACT), in quanto compagnia di sperimentazione. Da una parte, la cooperativa Argot sviluppa attività all’interno dello spazio, spesso legate al territorio romano, con un’offerta culturale per la città. Dall’altra, svolgiamo un lavoro a livello nazionale, con produzioni e progetti che portiamo in tutta Italia. Collaboriamo con tantissimi attori e registi di fama nazionale, sia nel cinema che nel teatro. Negli anni, molti progetti nati da Argot sono diventati produzioni cinematografiche. Per esempio, negli anni ’90 e 2000, diversi piccoli spettacoli teatrali nati qui sono stati adattati per il grande schermo.

Mi cita alcuni esempi?

Il film “Barbara”, con Marco Giallini e Valerio Mastandrea, tratto da uno spettacolo, “Cuore cattivo” di Umberto Marino, che è stato portato al cinema con Kim Rossi Stuart. Molti di questi progetti sono nati in Argot sia come spazio che come produzione. Recentemente, nel 2023, ho presentato il mio film “Dall’alto di una fredda torre”, tratto da un mio spettacolo, con Bonaiuto e Colangeli. Questo testimonia quanto il legame tra teatro e cinema rimanga forte. Continuiamo a produrre spettacoli contemporanei, come quelli di Elio Germano, che si concentrano anche sulla realtà virtuale. Abbiamo sviluppato un progetto di realtà virtuale nelle scuole e nei teatri in tutta Italia. Tra gli artisti con cui collaboriamo ci sono Stefano Fresi, Anna Foglietta, Tommaso Ragno e Sabina e Caterina Guzzanti, che rappresentano la nuova generazione del teatro italiano. Accogliamo i loro progetti e mettiamo a disposizione le nostre risorse per svilupparli. Il Teatro Argot è sempre stato un luogo intimo, dove lo spettatore vive un’esperienza teatrale molto coinvolgente, grazie alla prossimità con gli attori. Da questo forte legame emotivo, spesso, nascono progetti cinematografici. Dal 1984 ad oggi, ho contato almeno quindici film nati dal nostro teatro. Anche se ogni caso è diverso, spesso la storia di uno spettacolo ha talmente colpito un produttore da spingerlo a farne un film.

Cosa accade quando la realtà virtuale irrompe in teatro e si riesce a sfondare così tutte le pareti?

Capisco la preoccupazione che la realtà virtuale possa in qualche modo contaminare lo spettacolo dal vivo, ma noi abbiamo lavorato in una direzione diversa. I nostri progetti di realtà virtuale si consumano dal vivo: non produciamo audiovisivi per essere visti a casa, ma esperienze che si fruiscono in teatro. Il pubblico viene a teatro, paga un biglietto, si siede in sala e, anziché assistere a uno spettacolo dal vivo, indossa dei visori che lo trasportano in un’altra dimensione. È importante per noi che il pubblico faccia questo atto collettivo, senza rinunciare alla magia del teatro. In molti casi, i progetti sono misti: c’è una commistione tra realtà virtuale e attori in scena, che quindi proseguono lo spettacolo quando il pubblico rimuove i visori. Non credo che il teatro debba avvicinarsi troppo alla realtà: deve raccontare altro, diventando una metafora della vita. Non sono un convinto sostenitore dell’uso massiccio delle nuove tecnologie, ma penso che, se ben utilizzate, possano avvicinare le nuove generazioni al teatro. Durante il Covid, ad esempio, abbiamo fatto un esperimento di “delivery”, consegnando i visori a casa per permettere al pubblico di fruire di uno spettacolo contestualizzato alla situazione. Tuttavia, il nostro obiettivo rimane quello di legare la tecnologia a progetti teatrali, come abbiamo fatto con Elio Germano e il suo “Segnale di allarme”, che rielabora “Mein Kampf”. La tecnologia, in questo caso, ci permette di catapultare il pubblico in una dimensione alternativa, pur mantenendo viva la matrice teatrale. Sempre con Elio abbiamo poi realizzato l’opera Così è se vi pare in teatro ma poi il pubblico si ritrovava con il visore nella casa dei protagonisti e viveva quell’esperienza come se fosse un ospite. Tuttavia, è fondamentale che l’esperienza virtuale avvenga in teatro e che finita la piéce quell’esperienza si possa condividere con altri artisti e persone sedute tra il pubblico. Siamo convinti che lo spettacolo dal vivo che lo spettacolo dal vivo sia una esperienza che non bisogna perdere: tuttavia la realtà virtuale può essere uno strumento per avvicinare i ragazzi al teatro.

Come e cosa accade nel passaggio tra teatro e cinema, invece?

Succede che l’Argot, essendo la casa della drammaturgia contemporanea, si presenti come un luogo dove si raccontano storie che spesso diventano la base per il cinema. È uno spazio molto intimo e privato, dove lo spettatore vive l’esperienza teatrale in modo coinvolgente, grazie alla vicinanza con gli attori, e ogni emozione arriva immediatamente. È chiaro che, quando un produttore o un regista si siedono in quello spazio, il coinvolgimento è talmente forte da far loro decidere che quella storia merita di essere raccontata. Dal 1984 ad oggi, ho contato una quindicina di film nati in questo contesto. Ovviamente, ogni caso è diverso: ci sono situazioni in cui è piaciuta la storia e il produttore l’ha riscritta, oppure in cui il progetto è partito direttamente dal teatro. In molti casi, tre quarti dello spettacolo teatrale diventano sceneggiatura riscritta dall’autore, e la regia dello spettacolo e del film spesso coincide. A volte, però, la produzione cinematografica passa a soggetti terzi. Nonostante ciò, siamo stati e continuiamo ad essere un collegamento importante tra il progetto teatrale e la sua potenzialità cinematografica.

Qual è la domanda che si pone più spesso?

Una domanda che mi pongo da sempre è: ha senso tutto questo lavoro, questa passione, queste energie investite in qualcosa di effimero che cambia continuamente e in un contesto di precarietà? La risposta è sì. Siamo ormai vicini a 40 anni di attività con la cooperativa, e, nonostante gli alti e bassi e le difficoltà, come tutte le aziende, riusciamo a rimanere sulla cresta dell’onda. Continuiamo a realizzare i sogni di molti artisti, a mantenere il teatro sempre pieno e a fare ciò che ci è sempre piaciuto.

Come e da chi è costituita questa cooperativa oggi?

Quando sono entrato a far parte della famiglia Argot ero il più giovane, mentre ora sono il più anziano. Oggi la cooperativa è una struttura molto ampia. Sono il presidente e direttore artistico, insieme a Maurizio Panici, che ha fondato lo spazio, mentre  con Tiziano Panici, suo figlio, ricopriamo la direzione del Teatro. Abbiamo uno staff di persone sotto i 40 anni, tra cui tre dipendenti a tempo indeterminato che si occupano di amministrazione e organizzazione, e poi un nutrito gruppo di ragazzi sotto i 30 anni, con contratti a tempo determinato, che lavorano come tecnici, organizzatori, segretari di produzione e responsabili della comunicazione, ricoprendo un po’ tutti i ruoli necessari. Inoltre, collaboriamo regolarmente con numerosi artisti su specifici progetti.

Perché la forma cooperativa?

La forma cooperativa continua a rappresentare un valore aggiunto, non solo dal punto di vista legislativo, ma anche come mentalità. Siamo un gruppo che lavora in condivisione, rispettando i principi fondanti della cooperativa: si lavora e si decide insieme. È chiaro che ci sono figure con responsabilità maggiori, come accade quando si tratta della scelta dei progetti o delle linee comunicative, ma tutto avviene con una grande condivisione. Chiunque venga a lavorare con noi non ha la sensazione di far parte di un’azienda, ma piuttosto di una famiglia.