NEGLI SFASCI PER FARE MODA, ECONOMIA ED INCLUSIONE. OCCHIO DEL RICICLONE: “ROMA, COSI’ PUOI INCLUDERE I ROM”

Roma, 17 giugno- Sottratte alle macchine in demolizione, le cinture di sicurezza diventano tessuto per borse chic e trolley super-resistenti prodotti dalla cooperativa Occhio del riciclone – neo aderente a Legacoop Lazio.  La moda ecosostenibile negli sfasci è un’idea delle sarte stiliste Aurelia Laurenti e Francesca Patania che, attorno al loro marchio, hanno costruito un microcosmo che dal Lazio si è allargato in Toscana, Campania, Emilia Romagna e Calabria, fino all’estero- con sedi operative in Messico e in America Latina.

Grazie ad accordi e collaborazioni con autodemolitori, laboratori sartoriali e ditte di teloni pubblicitari, l’Occhio del riciclone ha dato vita ad una filiera che trasforma materiali riciclabili in economia. I prodotti di merchandising ricavati da materiali usati si sono moltiplicati: alle cinture di sicurezza si sono aggiunte le vele delle barche, i teloni in pvc, gli sfridi tessili e tutto quanto possa stimolare la fantasia per dare vita alla linea del marchio Belt bag. Ma intanto, l’associazione studia il ciclo dei rifiuti per valorizzare l’usato. E anche le persone.

 

 OCCHIO DEL RICICLONE: “ROMA, COSI’ PUOI INCLUDERE I ROM”

E se questo modello- a Roma- servisse per includere anche i rom e le comunità migranti?
Un progetto sperimentale, nella Capitale, c’è stato- ha spiegato Gianfranco Bongiovanni, vice pres. ass. Occhio del Riciclone e segretario della Rete nazionale operatori dell’usato. Anni fa, una consulta con i rigattieri ambulanti di Porta Portese e con soggetti a rischio di marginalità sociale.

“Abbiamo provato a creare un’area di libero scambio facendo richiesta al Municipio di Roma X per l’occupazione di suolo pubblico- ha detto-. Per sei mesi, abbiamo dato vita alla “Piazza del riuso solidale”- un’area di libero scambio in cui hanno trovato impiego un centinaio di persone che hanno ottenuto regolare permesso di soggiorno e hanno dato sostentamento alle loro famiglie”.

I risultati? “Abbiamo così regolamentato un mercato spontaneo- ha raccontato Bongiovanni-. Il progetto, però, è stato interrotto e oggi si è ritornati alla spontaneità dei mercati non organizzati in cui i rom sono sempre a rischio di sanzioni e sequestro delle merci. La lancetta dell’orologio è tornata a dieci anni fa”.

“Abbiamo presentato diversi progetti alle Istituzioni volti a far emergere il lavoro dei rom di raccolta differenziata dei rifiuti, per rendere questa attività igienicamente sana, incentivando i mercatini rom. Ma i nostri progetti non hanno avuto fortuna. Nessuno ci ha ascoltati e nessuno ci ha finanziati” ha concluso il pres. della coop. Occhio del riciclone, Francesca Patania. “Bisogna stimolare la microimprenditorialità piuttosto che l’assistenzialismo. Le politiche puramente assistenzialistiche sono deleteree” ha detto Bongiovanni, in riferimento ai dati diffusi dal report dell’associazione 21 luglio sui costi a Roma nel 2013 volti a risolvere la questione nomadi. Di questi, solo lo 0,4% sarebbe destinato a  progetti di inclusione.

 

L’inclusione, il lavoro e la raccolta differenziata: il problema.

Certo, regolamentare un mercato così complesso come quello della raccolta differenziata dei rifiuti includendo i rom non è semplice. “E’ una prassi consolidata quella di mettersi di fronte alle isole ecologiche per intercettare i beni in buono stato prima che la merce entri” ha spiegato. Nei dodici centri della municipalizzata dei rifiuti di Roma è da poco arrivata la vigilanza ore 24 contro i furti e i danneggiamenti causati dai rom.
Eppure, quelle acquisite dai rom per la selezione e il riciclo dei materiali sono delle vere e proprie competenze professionali, utili sul mercato. “Ogni nucleo familiare di etnia rom, durante la settimana impiega 4 persone per ricercare beni riutilizzabili nei mercatini spontanei. Riescono a ricavare in media un migliaio di euro” ha spiegato Bongiovanni.
“Includere un capo famiglia all’interno di una cooperativa in una struttura per il riciclo consentirebbe di dare un reddito ai singoli soggetti e nello stesso tempo di impedire il proliferare del l’approvvigionamento spontaneo e non dignitoso dal flusso dei cassonetti di quei beni” racconta.

E Bongiovanni propone: “l’istituzione di sportelli per l’emersione delle micro imprese dell’usato che diano supporto tecnico e amministrativo a queste comunità e che intanto mappino insieme ai servizi sociali l’entità del bisogno che c’è sul territorio e per capire se c’è la voglia di partecipare ad un progetto volto alla creazione di aree di libero scambio non professionale volta alla regolamentazione dell’intero settore dell’usato. Le coop sociali, poi, potrebbero attivare accordi di programma con le amministrazioni per la gestione dei centri di riuso. Visto le finalità etiche e sociali del mondo della cooperazione, includere le professionalità rom come selezionatori, prezzatori o riparatori, potrebbe essere utile e importante”.